Di Marco Boncoddo - 

E' 22 dicembre, mattina presto. Un pallido sole si manifesta disturbando il mio sonno instabile, agitato benignamente da visi cari, quantità di cibo pari alle vettovaglie approntate per la legio romana di stanza in Britannia e da qualche fotogramma del mio stadio. Perché? Tutto il resto appartiene alla routine classica del “terrone fuori sede”, eccitato dall’imminente rientro natalizio… normale. Ma il Franco Scoglio? Già… adesso che ci penso manca una sola settimana al derby. E questa volta, vedi un po’ che immenso regalo decembrino, la battaglia per la predominanza dello Stretto è stata incastrata tra altre due sacre sponde, Natale e Capodanno. Coincidenza estremamente fortunata, a ragionarci su. I tifosi della biancoscudata confinati in padania, come me, potranno assieparsi (si spera numerosi) sui seggiolini dell’impianto di casa, per assistere ad una partita della loro squadra. Una partita? No, questa è la partita. Il mio ragionamento a volte s’inceppa, non fila liscio come vorrei, forse per l’ora, forse solamente perché le immagini vorticano nella mia mente come un delirante film di un visionario regista hollywoodiano.

In ogni caso, c’è ancora una giornata di lavoro da fare, un aereo da prendere, una lotta da condurre per tornare in quella città che mi culla sin da bambino. Messina mi attende, con il suo strabiliante volto, meraviglioso alla prima occhiata, malinconico e sonnolento alla seconda. Una terra stuprata e vilipesa ma intrisa di un’abbacinante luce millenaria, pronta a deflagrare nel cuore di ogni peloritano al rientro a casa. Ma c’è qualcosa di nuovo, stavolta… tornato a casa, quest’anno, stringerò la mia ragazza, abbraccerò i miei genitori, offrirò duecentoun caffè agli amici di sempre. Il 29, però, passerò l’intera giornata con la mia fede. Lo farò, ne sono convinto. E non andrò a distruggermi il fegato per una squadra che il prossimo anno giocherà la Champions League. Non perderò la mia voce per una compagine che lancia app per smartphone o apre store in tutto il mondo. No. Andrò “o campu” per tifare la mia città, nella partita più importante dell’anno, quella contro i cuginastri d’oltre Stretto. Il motivo non è difficile da capire… mio padre, tanti anni fa, mi spiegò cosa significa “appartenenza”, mi diede la mano facendomi entrare nella pancia del tempio “celeste”, mi indicò una candida maglia con un scudo sul petto tatuandomela idealmente sulla pelle.

Sono uno dei tanti “fuori sede”. Convivo con questa strana etichetta che, nel tempo, ha assorbito le più svariate sfumature. Sono un coraggioso o un bamboccione? Sono un emigrante impavido o forse un fuggitivo un po’ choosy? Non lo so davvero. Ci penso, mentre salgo in macchina per andare al lavoro, in quella terra gelida che comunque mi ha accolto, ed alla quale sarò grato. Però, dopo pochi attimi, mi torna in mente il volto sorridente di mio padre, che mi indica un ragazzotto riccioluto, romagnolo, con un 9 stampato sulle spalle, nel giorno della mia prima partita. “Quello è Igor Protti, il nostro campione”. E poi… Poi penso agli anni sporchi ed orgogliosi della Peloro del Cavaliere, La Rosa e Pannitteri. La rinascita. E Portanova che corre lungo la fascia, Iannuzzi che dipinge come Poliziano e Godeas che trafigge la Reggina. E la serie A. Mi vedo in mezzo ai fratelli alla Caronte. Ed ancora Arturo che abbraccia un tifoso, Riganò che si trasforma in George Best, Ciciretti che si fa un selfie sotto la curva. Immagini splendide, che si ricollegano immediatamente ai dolori di una grandissima “B” al Granillo, o di un certo Balistreri che distrugge le speranze di un popolo.

Ne ho passate tante, come tutti coloro che soffrono per questa maglia. Due soli colori che, costantemente, ci fanno sgorgare un fiotto di lacrime dagli occhi. Il calcio lo guardo, tutto. Ma non capisco come ci si possa emozionare per una società che non ti appartiene, che non fa parte della tua terra, che non puoi “vivere” quotidianamente. E’ solo per questo motivo che, nonostante tutto, declinerò un invito per una giocata a carte, o un tranquillo pomeriggio con i parenti, o un aperitivo, o un film natalizio al cinema per essere lì, al Franco Scoglio, a vedere il derby dello Stretto. Per sostenere la mia fede, gioire dinnanzi ai miei rivali o incassare le loro frecciate al vetriolo. Non lo so come finirà. So che ci sarò, perché settimanalmente non posso scegliere di andare a vedere il Messina dal vivo. Mi godo questo regalo e come me, ne sono sicuro, lo faranno altri fuori sede con la mia malattia.

Posteggio la macchina, prendo la mia borsa e vado al lavoro. Felice, come un fanciullino di pascoliana memoria. Stasera sarò a casa, nella mia Messina. Presto, invece, rivedrò Lei, quella stella oggi opaca che può riaccendersi istantaneamente e che, comunque vada a finire, mi farà battere il cuore. Come una volta. Come sempre.  

Sezione: Acr Messina / Data: Mar 27 dicembre 2016 alle 13:27 / Fonte: Marco Boncoddo
Autore: MNP Redazione / Twitter: @menelpallone
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