Abbecedario del pallone messinese, parte prima: parole da cancellare

Appartenenza – La madre di tutte le elucubrazioni filosofiche (o masturbazioni mentali) intorno ad un fenomeno sociale come è ancora il calcio. A Messina, semplicemente, non esiste. Confusa con un indefinito vocabolo, la “messinesità”, in cui, al di là della identificazione con focaccia, braciole, tajuni, granita e brioscia, pitoni o arancini, si può mettere tutto e il suo esatto contrario. I paladini della messinesità sono capaci di stare ore a discettare sui social a proposito delle etimologia di pitoni o pidoni, arancini o arancine, fare lotte epocali sulla consistenza della granita catanese, difendere con forza di argomenti inconfutabili le origini peloritane del Bardo, ma, se si tratta di esporsi per una causa che abbia anche lontanamente le caratteristiche dell’interesse comune, ecco esporre subito la bandiera del “ma cu ti potta?”, figlia legittima del “tengo famiglia” stampato sul tricolore secondo Leo Longanesi. Della serie: tutto il mondo è paese. Ma Messina, un po’ di più, almeno per noi. Dire ne voglio, ma sentire….

Atto d’amore – Da non confondere con stupro a fini personali o per vendetta. Quello è da derubricare alla voce “bottino di guerra”, non compresa nell’abbecedario. Pronunciato nella prima conferenza stampa di un presidente, amministratore delegato, sponsor, finanziatore, ceo, brand position manager, general supervisor, advisor, granfigldibuonadonn, prelude al più classico dei fallimenti, sportivo e finanziario, a volte con corredo di inchiesta penale, puntualmente finita in un buco nell’acqua. Se la frase viene pronunciata, quasi in simultanea, anche dal direttore generale, o responsabile dell’organizzazione, allora cercare “cabbasisi”, ché in genere vanno in coppia.

Blasone – Una piazza che, dopo tre fallimenti, quattordici anni di serie D negli ultimi 28, la macchia indelebile della rinuncia deliberata alla serie B mantenuta sul campo, una teoria interminabile di personaggi circensi in cerca di visibilità o di terreno fertile per le loro piccole truffe, ancora invoca la tradizione calcistica incarnata nel “blasone”, dovrebbe farsi qualche domanda, magari iniziando anche a darsi delle risposte.

Brand – L’abuso di questo termine, accostato ad altri false friends, come skills, breafing, supervisor, know-how, mission, stekeholders, merchandising, marketing, fa scattare il segnale di warning (pericolo) per indentificare la fuffa, il discorso gonfio come un gelato fatto con la macchinetta e le polverine (al destrosio, non quelle che passano per le narici). A Lecce, per non scomodare Barcelona o Amsterdam, o New York, identifica il Salento ed anche la squadra di calcio contribuisce a creare un marchio vincente per vendere adeguatamente in tutto il Mondo il territorio, non solo dal punto di vista turistico. Discorsi fantascientifici dove si contrappongono due marchi appartenuti alla storia del calcio messinese per alimentare divisioni e non per unire la memoria comune della città. Qui, il brand crea l’atmosfera… da derby farlocco.

Cordata. La sola citazione muove ricordi infantili, quasi ancestrali, di imprenditori provenienti da ogni parte del mondo, intenti a “studiare le carte”, “ultimare la due diligence”, “pronti a riportare Messina dove merita”, tutti ospitati sulle colonne dei quotidiani locali e nazionali, specializzati o meno, e, più recentemente, nelle pagine web di siti o sui social, fino alle mitiche e mai così dannose, chat di whatsapp. Spazi enormi, dedicati alla ostensione dei business plan multimilionari, lunghissime tavole della verità intitolate “il mio modo di fare calcio”. Negli ultimi anni all’insegna dell’ “uomo solo al comando”, ne abbiamo sentito la mancanza, forse, giusto per riempire le calde, immobili, irritanti, giornate estive. Ma nei prossimi giorni, potrebbe tornare in auge.

Dignità – cfr. Treccani Condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e ch’egli deve a sé stesso. Lasciamo perdere. La dignità e il calcio non vanno d’accordo, la nostra città è in linea con il resto del mondo, pur spiccando per uso altamente improprio del concetto.

Normalità – In un universo parallelo, il Messina, anzi, no, l’Acr Messina 1947, anzi, no, il Football Club Messina 1900, vabbè, insomma, la Biancoscudata ha vissuto, al massimo, due-tre campionati di serie C dal dopoguerra ad oggi (si potrebbe anche eliminare la guerra, ma meglio non esagerare), naviga tra massima divisione e campionato cadetto con un settore giovanile tradizionalmente forte, costituendo un punto di riferimento per tutta la provincia, grazie al centro sportivo realizzato dalla proprietà messinese, sintesi della migliore imprenditoria presente sul territorio. Questa dovrebbe essere la normalità, non quella “parola chiave” che serve a qualche espertone di marketing dei poveri per alimentare i propri discorsi da piazzista di sogni.

Progetto – Nel calcio è la foglia di fico dietro la quale si nascondono, in genere, interessi o vanagloria. Declinata con accento nordico assume un valore particolare, perché, si sa, il nord è manageriale per imprinting genetico. Se la parlata è del centro, o romanesca, diventa istituzionale, para governativa, scivolando, a volte, verso la nobiltà nera o le mitiche aderenze, perfino all’Opus Dei. Superata Latina, scendendo verso Sud, ecco che iniziano a sentirsi profumi di calcio di una volta, sfide epiche, lotte di campanile, urla da sala giochi, fruscii di banconote, tintinnio di manette. Pronunciare questa parola con le due g rafforzate dell’idioma peloritano equivale a un vacuo esercizio di retorica e suscita profonde reazioni di imbarazzo, anche se le pronuncia gente con tre master in Business Aziendale e venti anni di esperienza nelle major anglosassoni, pur frequentando “i peggiori bar di Caracas”.

Patron – Definisce il proprietario di una società calcistica, detentore dell’intero pacchetto azionario, decisionista, riconosciuto da tutti per la propria leadership dentro e fuori dal campo nei confronti di tutta la compagine organizzativa, tecnica, atletica, comunicativa che costituisce l’ossatura di una società calcistica professionistica. Punto di riferimento per l’ambiente, catalizzatore di un senso di appartenenza identificato nella maglia. Ha, insieme, soldi, faccia tosta, credibilità, huevos. Figura mitologica dalle parti dello Stretto di Messina, sponda corretta. E’ il termine più abusato e fuori luogo utilizzato per i presidenti delle squadre di calcio messinesi, nella quasi totalità dei casi padroni neanche di sé stessi.

Sezione: Il focus / Data: Dom 25 luglio 2021 alle 22:02
Autore: Davide Mangiapane / Twitter: @davidemangiapa
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