Il “5 giugno” diventa maggiorenne. Sono passati 18 anni da quel giorno che riportò il Messina in serie A, un evento da inserire nei ricordi indelebili per chiunque abbia vissuto l’emozione di tifare la biancoscudata dentro quel catino tutto particolare che era il “Giovanni Celeste”. Fu un momento unico di condivisione in una città nella quale il popolo solo una volta all’anno, il 15 agosto, vive davvero le proprie strade seguendo un senso di comunità, quando la Vara viene, quasi miracolosamente, trainata sulla slitta da due canape tenute in tensione grazie alla spinta coordinata di centinaia di persone, devoti al culto di Maria, ma soprattutto “tiratori” per sciogliere un voto a seguito di grazie ricevute, per sé o per la propria famiglia.
Senza voler scendere troppo in analisi antropologiche, un impegno collettivo conseguente a un atto di fede da parte di tanti singoli uniti in gruppo. Misteri della fede, si direbbe, ma, senza indagare oltre, diversi da quel 5 giugno 2004 in cui si visse un giorno, ma verrebbe da dire almeno una settimana, di delirio in tutta Messina, con le strade, i pali della luce, le strisce pedonali, interi caseggiati dipinti di giallorosso, quasi come se fossimo a la Boca o a San Lorenzo.
Quel giorno sembrava non finire mai, dall’alba in attesa di accaparrarsi il proprio spazio vitale dentro il “Celeste”, passando per il lungo pomeriggio, fino a quella serata e a tutta la notte successiva, con i viali, non solo del centro, pieni di tifosi festanti, macchine, furgoni, camion tappezzati di bandiere, gente che ballava, il rave party notturno a Piazza Castronovo e fuochi d’artificio senza soluzione di continuità. Una partecipazione popolare che proseguì, come in un incantesimo, per i 12 mesi successivi, perché anche la stagione seguente fu un susseguirsi di imprese sportive in tutta Italia, avendo come base lo stadio costruito in contrada San Filippo proprio sfruttando la spinta di quel campionato di serie B 2003-2004, concluso al 4° posto dopo essere stati fanalino di coda ad inizio stagione.
I venticinquemila abbonati, la fiumana di gente che occupava il viale di accesso allo stadio ogni domenica in cui il Messina giocava in casa e, quasi puntualmente, si metteva a piovere, le magliette giallorosse o biancoscudate indossate con orgoglio dai bambini nelle scuole calcio o nei cortili, fino ai loro papà e nonni. Furono anni di grandi soddisfazioni, culminate con il settimo posto raggiunto malgrado il freno a mano palesemente tirato dagli uomini di Mutti negli ultimi mesi di campionato, e la chance di entrare in Europa buttata via per non essere costretti a mettere a posto qualche indice di bilancio. Quel risultato fu il culmine di una parabola vincente durata 5 anni, iniziata dopo la cocente delusione dello spareggio promozione in C1 perso a Lecce contro il Benevento ai tempi supplementari, proseguita con il trionfo dell’anno successivo e l’incredibile rinascita nella bellissima e tragica finale playoff decisa dal rigore di Sullo ai danni del Catania, senza dimenticare il biennio tra i cadetti con due salvezze, diverse ma comunque appassionanti.
Un lustro di soddisfazioni, ma anche di illusioni, visto ciò che è accaduto, nel calcio, nei successivi 18 anni. Tre retrocessioni sul campo (due dalla A alla B, una dalla C in D) di cui due “recuperate”, due cancellazioni dai quadri professionistici (nel 2008 e nel 2017), una per scelta deliberata della proprietà, l’altra, non si è ancora capito per scelta di chi. Nove presenze in serie D, 5 in C, 3 in A, una in B, con una sensazione costante di avere perso non solo la magia dell’incantesimo targato 5 giugno 2004, ma anche quel senso di appartenenza che aveva contraddistinto la piazza di Messina nei decenni precedenti, pur avendo vissuto periodi, più o meno lunghi, di crisi nei risultati e nella partecipazione. E quello stadio mai nemmeno lontanamente vicino al “Celeste” nei cuori dei tifosi o degli appassionati biancoscudati, teatro di sfide con gli squadroni allora al vertice del calcio mondiale, ma solo per un battito di ciglia, per poi diventare un gelido contenitore di entusiasmo sempre più tiepido, con l’eccezione di quel Messina-Catania del 15 novembre 2015, oltre 18.000 spettatori paganti, ma gli spalti pieni per meno di due terzi della loro massima capienza.
Addirittura, la lotta intestina con sfide stracittadine a livello di paesini nell'ambito di tornei dilettantistici, rivalità sublimate nel microcosmo allucinogeno dei social ed alimentate da speculatori di piccolissimo cabotaggio, che facevano leva su quel ricordo comune a tutti i tifoso, per creare realtà virtualmente alternative.
Piano piano, il Messina è diventato un inutile orpello per pochi intimi, a partire da quell’asta fallimentare del titolo sportivo assegnato ad un gruppo di presunti imprenditori laziali e campani, e nemmeno i due campionati vincenti nel triennio gestito da Pietro Lo Monaco come presidente, o la promozione seguita dalla salvezza in C nelle ultime stagioni, hanno tolto quella patina di disinteresse, apatia, quasi fastidio che caratterizza l’argomento squadra di calcio cittadina dalle nostre parti.
Molte responsabilità vengono addossate ai proprietari pro-tempore, in certi casi evidenti, ma, a diciotto anni di distanza da quell’ultima serata di amore smisurato e partecipazione popolare verso il Messina, non sarebbe il caso di prendere la maturità e incominciare a riaffacciarsi al mondo, ritrovando il piacere di costruire qualcosa insieme? Non è mai troppo tardi…
Autore: Davide Mangiapane / Twitter: @davidemangiapa
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